L'uomo più felice della terra è un monaco buddista di 62 anni piuttosto alto, ironico e molto impegnato (segue 30 progetti umanitari in Tibet, in Nepal e in India). Parigino, papà filosofo dell'Académie française (Jean-Francois Revel) e mamma pittrice (Yahne Le Tourmelin), è cresciuto in mezzo a Luis Buñuel, Igor Stravinsky e Henri Cartier-Bresson. A pane e cultura, insomma. A 26 anni ha buttato all'aria il dottorato in genetica cellulare all'Istituto Pasteur di Parigi per cercare la sua strada in Himalaya. Oggi è uno dei consiglieri del Dalai Lama. E gli scienziati dell'Università del Wisconsin che hanno studiato le sue onde cerebrali hanno sentenziato: «È l'uomo più felice della terra». Decisamente Matthieu Ricard ha trovato la sua strada. Impossibile, incontrandolo, non partire da qui.
Che cosa dobbiamo fare per essere felici?
Se l'aspettava. Sorride con gli occhi e risponde con tono gentile: «Istintivamente riponiamo tutte le nostre speranze nelle condizioni esteriori. Non è sbagliato. È normale anelare a una vita lunga, in salute, in un paese libero e democratico. Ma è fondamentale che ci concentriamo sulle condizioni interiori. Perché la felicità non è una successione fortunata di eventi felici, ma è un modo di essere ottimale che ci dà le risorse per gestire ciò che ci succede. La strada per arrivarci è l'allenamento dei nostri sentimenti migliori: l'altruismo, la compassione, la pace interiore. Ed è anche la liberazione progressiva dalla collera, dalla paura, dalla gelosia, dall'orgoglio».
Facile in un monastero. Difficile da praticare tutti i giorni con il capo, l'amica o il vicino di casa.
«A maggior ragione in un mondo caotico è importante cominciare a trasformare dentro di noi. Con un po' di sforzo e tanta pratica. Come si dedicano molti anni alla formazione culturale e professionale, così dobbiamo darci del tempo per trasformare noi stessi ».
Come «allenarci», per esempio, quando ci sentiamo provocati in ufficio?
«Con il contagio emozionale. Cioè rispondendo con un atteggiamento sinceramente positivo e aperto. L'aggressività di quel collega, alla fine, si smorzerà. Il che non significa essere passivi e subire. Vuol dire scegliere lucidamente di non litigare».
Esiste una felicità del falegname, del panettiere, del manager?
«No. Le componenti fondamentali della felicità sono le stesse per tutti, come quelle dell'infelicità: bontà, generosità, apertura al prossimo; e malvagità, gelosia, egoismo».
Nel suo ultimo libro Il gusto di essere felici (Sperling Kupfer) scrive che la «felicità è il gusto di vivere ». Come chiederlo a un disoccupato o a un malato terminale?
«Gli studi hanno verificato che di fronte a un tumore ci sono due risposte: un crollo fisico e morale oppure, ed è la maggioranza, una capacità di vivere con pienezza e appagamento il tempo che resta».
È possibile educare i bambini a essere felici?
«Fanno la differenza l'affetto, la tenerezza e l'amore che ricevono dalla madre. È lei a dover essere messa in condizione di potersi occupare del figlio nel modo migliore».
Che senso ha fare ricerca interiore mentre i popoli sono sconvolti da guerre e povertà? Non sarebbe più utile agire concretamente?
«Potremmo domandarci, allora, a quale scopo costruire un ospedale. Non dovremmo sbrigarci e operare per strada chi è ferito? Eppure, quando l'ospedale è finito, sarà un mezzo molto più potente per prestare soccorso. Allo stesso modo non c'è nessuna guerra che non cominci con dei pensieri di odio, di collera e di competizione. Se cominciamo a trasformarli a livello individuale, forse si può evitare la guerra».
Crede che il Dalai Lama riuscirà a tornare in Tibet?
«Lo si dovrebbe chiedere al governo cinese. Naturalmente lo spero».
Cosa pensa del boicottaggio delle Olimpiadi?
«Il problema del Tibet non si risolverà senza il dialogo. Se le autorità internazionali davvero vogliono aiutare il Tibet, possono chiedere al capo di stato cinese di incontrare il Dalai Lama come condizione indispensabile per la partecipazione alla cerimonia inaugurale dei Giochi».
La gioventù radicale tibetana ha detto di essere pronta a gesti estremi, senza escludere i kamikaze.
«È un atto di disperazione. I giovani hanno capito che il mondo rivolge l'attenzione alla causa tibetana solo di fronte ad atti di violenza».
(Il Corriere)
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